Economia
Concordato, mezzo flop? Si, perché c’è molta meno evasione di quella stimata
11/11/2024
Da ogni singolo aderente, l’erario incasserà mediamente 2.600 euro. La CGIA critica i dati del MEF sull’evasione degli autonomi ritenendoli non “attendibili”. Pochi controlli? Falso. Tra lettere di compliance, accertamenti e verifiche, nel 2023 sono state interessate 3,7 milioni di attività imprenditoriali, pari al 65% circa del totale.
Per qualcuno può sembrare una provocazione, per l’Ufficio studi della CGIA, invece, costituisce la chiave di lettura che spiega il mezzo flop registrato dal Concordato preventivo biennale (Cpb).
Secondo le prime indiscrezioni rilasciate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), avrebbero sottoscritto il Cpb poco più di 500mila partite Iva che dovrebbero assicurare all’erario 1,3 miliardi di euro. A fronte di 4,5 milioni di lavoratori autonomi e di imprese potenzialmente interessate da questo strumento (di cui 1,8 milioni di forfettari e 2,7 milioni di operatori sottoposti agli Isa), entro il 31 ottobre scorso avrebbe aderito solo l’11 per cento del totale. In merito alle entrate, invece, il concordato dovrebbe aver fruttato alle casse dello Stato 1,3 miliardi di euro, rispetto ai 2 miliardi preventivati inizialmente. Pertanto, ogni soggetto che ha sottoscritto questo “patto” con il fisco ha pagato mediamente 2.600 euro. Se con la scadenza del 31 ottobre scorso l’erario sicuramente incasserà molto meno del previsto, non è che per caso la dimensione economica dell’evasione in capo agli autonomi sia abbondantemente sovrastimata?
In materia di evasione fiscale, molti autorevoli opinionisti citano spesso i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) che stimano in 82,4 miliardi di euro il tax gap delle entrate tributarie e contributive presenti in Italia. Entrando nel dettaglio di questa analisi, la tipologia di imposta più evasa sarebbe l’Irpef in capo ai lavoratori autonomi, per un importo pari a 29,5 miliardi di euro che corrisponde ad una propensione al gap nell’imposta che da anni sfiora stabilmente il 70 per cento. Questo vuol dire, secondo gli estensori di questa elaborazione, che poco meno del 70 per cento dell’Irpef non sarebbe versata all’erario dai lavoratori autonomi. Non entriamo nel merito della metodologia di calcolo utilizzata, alquanto arzigogolata, ma ci limitiamo a dimostrare l’“inattendibilità” di questo risultato. Secondo le dichiarazioni dei redditi dei lavoratori autonomi in contabilità semplificata del Nord (praticamente artigiani e commercianti), nell’anno di imposta 2021 hanno dichiarato mediamente 33 mila euro lordi. Segnaliamo che oltre il 70 per cento di queste partite Iva è composto dal solo titolare dell’azienda (in altre parole lavora da solo). Bene. Se, come sostengono i tecnici del MEF, queste attività evadono quasi il 70 per cento dell’Irpef, quanto dovrebbero dichiarare se fossero ligi alle richieste dell’erario? Il 120 per cento in più, ovvero poco più di 74 mila euro all’anno. Ora, come possono “raggiungere” nella realtà una soglia di reddito così elevata se, come abbiamo appena detto, la stragrande maggioranza lavora da solo, quindi è poco più di un lavoratore dipendente, e al massimo può lavorare 10-12 ore al giorno, senza contare che durante questa fascia oraria deve rapportarsi anche con i clienti, con i fornitori, con altre aziende, con il commercialista, con la banca, con l’assicurazione e come tutti i comuni mortali può infortunarsi, ammalarsi, etc., etc.? Ovviamente, nessuno può nascondere che anche tra i lavoratori autonomi ci siano delle sacche di evasione che vanno assolutamente contrastate. Tuttavia, le stime messe a punto del MEF non convincono, anche alla luce del fatto che, per ragioni di natura tecnica, non includono il tax gap riconducibile agli autonomi esclusi dal pagamento dell’Irap. Vale a dire quelli in regime dei “minimi” (1,8 milioni di soggetti), una buona parte delle imprese agricole, i professionisti privi di autonoma organizzazione e il settore dei servizi domestici. Complessivamente stiamo parlando di ben oltre la metà dei lavoratori indipendenti presente nel nostro Paese. Ebbene, se fosse considerata anche l’evasione di questi ultimi, che picco toccherebbe l’infedeltà fiscale degli autonomi? È evidente che questi dati sono poco “attendibili”, ma quello che è altrettanto insopportabile che molti opinionisti radical chic utilizzino queste stime per accusare gli autonomi di essere un popolo di evasori.
Tornando al Cpb edizione 2024, nessun altro provvedimento di compliance presentato in passato era stato “modellato” su misura come questo, in particolare per chi sistematicamente ha la cattiva “abitudine” di pagare poche tasse. In via subliminale, il “patto” proposto dal fisco era basato su questi presupposti: il contribuente dichiara per il biennio 2024-2025 qualcosa in più e conseguentemente paga un po’ più di quanto ha versato in passato, consentendo all’erario di incassare immediatamente la liquidità necessaria per coprire la riduzione delle aliquote Irpef al cosiddetto ceto medio. Per contro, l’Amministrazione fiscale, nello stesso arco temporale, si impegna a limitare la propria azione di controllo, concentrando la propria attività anti-evasione su chi non ha aderito.
Per chi con la propria attività può fare molto “nero”, questo provvedimento ha consentito, con un pagamento relativamente modesto, di “congelare” per due anni l’attività di accertamento dell’Agenzia delle Entrate nei propri confronti. Considerato che gli imprenditori e i lavoratori autonomi non sono degli stupidi, vuoi vedere che, nonostante il Cpb fosse particolarmente “vantaggioso”, l’adesione è stata nettamente inferiore alle attese, poiché la propensione all’evasione fiscale di queste categorie sarebbe, secondo la CGIA, molto al di sotto delle stime, anche di quelle elaborate dal MEF? Sia chiaro: non si venga a dire che questa ipotesi non sarebbe verosimile, perché la possibilità che una micro/piccola impresa venga controllata dal fisco e in generale dalle istituzioni pubbliche è pressoché pari a zero.
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